Qui proseguo la narrazione di due
particolari eventi, vissuti in due differenti giornate, ed in due luoghi
diversi. In principio la bozza che feci concerneva sempre due narrazioni legate alle città di Torino e Milano. Tuttavia il passare del tempo,
legato anche a diversi viaggi fatti nel mentre, mi ha portato a cancellare da
zero la bozza in questione e a riscriverla di nuovo.
I brani che ho inserito si riferiscono
adesso – lasciando sempre di fondo la riflessione su cui si basava la prima
parte – al mio viaggio a Uppsala (Svezia) durante lo EYP International forum e
Milano, mia nuova dimora a causa lavorativa.
Come prima, la narrazione non è fatta in ordine cronologico.
Come prima, la narrazione non è fatta in ordine cronologico.
Scusate l’assenza, mi farò perdonare (ma
non prometto nulla).
Entro nel salone illuminato da decine di
candele disposte ordinatamente su ogni tavolo. La loro luce fioca viene
ampliata dai lampadari (simil) cristallo disposti sulle nostre teste, enfatizzando
la grandezza della sala mentre i passi degli invitati fanno scricchiolare il
pavimento di legno situato al primo piano della Östgöta Nation di Uppsala.
Lentamente, impressionato dall’atmosfera
che si respira – quel misto di timore, euforia e falso senso di autostima che
accompagna ogni serata di gala – mi avvio al mio posto. Un cartoncino di carta,
posato sul calice, recita il mio nome in caratteri arzigolati,
accompagnato da numerosi bicchieri, posate ed il servizio di ceramica.
Inizio a
chiacchierare con i miei vicini di posto. Ho già avuto il piacere di conoscerli
nei giorni scorsi e cerco sapientemente di mescolare la mia conoscenza dell’inglese
e del francese in base all’interlocutore cosi da creare quel leggero clima di
calore che permette ad ogni conversazione di avanzare dalla mera cortesia al
sincero colloquiare in veste di conoscenti, passando da argomenti di cucina
alla politica internazionale, senza dimenticare il vino servito. Un coltello
leggermente battuto su di un cristallo, segno internazionale del principio di
un discorso, attira la mia attenzione.
***
«Ragazzi ve l’ho detto mille volte:
quando cucinate dovete spegnere la luce!! La corrente costa! E poi non c’è mica
bisogno di tutta quest’acqua per cucinare gli spaghetti!»
«Ci scusi signora, ce ne dimentichiamo sempre.»
«Ci scusi signora, ce ne dimentichiamo sempre.»
La porta si chiude, seguita dai nostri
sbuffi di impazienza. Ritorno a cucinare alzando le spalle: si tratta di una
soluzione temporanea finché non riesco a trovare un appartamento vero e proprio
dove vivere. Purtroppo a Milano trovare una casa che riesca ad accontentare
tutti i tuoi bisogni non è facilissimo ed il tempo è poco, messi in conto i
mille impegni che mi aspettano durante la settimana. Finiti di cucinare i miei
classici spaghetti in bianco (classici in quanto è quello che cucino sempre
quando non ho voglia di fare nulla in cucina e/o mi manca l’ispirazione di fare
alcunché) mi siedo esausto. Guardo i miei coinquilini: siamo tutti giovani
lavoratori a centinaia di chilometri da casa. Ci alziamo ogni mattina presto e
ci rivediamo la sera, esausti. Queste dovrebbero essere le classiche ricette
affinché la tavola puzzi di quel tanfo tipico della lontananza, ossia quel
misto di nostalgia, stanchezza inesauribile e rimpianto di trovarsi lì.
Eppure così non è.
Ridiamo, parlando del più e del meno.
Era da tanto che non trovavo persone con cui riuscivo a legare così,
semplicemente nell’immediato. Senza frasi accattivanti né sorrisi di plastica,
ma solo accomunati dal rumore di posate, bicchieri e parole gentili. Tutto
questo mentre la voce del televisore rumoreggia nel sottofondo del nostro
vivere.
***
Il consigliere municipale ci sta
riempiendo di orgoglio nel suo discorso sapientemente preparato. Parole di
elogio ci sviolinano intorno alle orecchie, mentre ci guardiamo con compiaciuto
assenso comune. Voi siete il futuro dell’Europa, voi siete coloro che la
salveranno dal baratro e portate speranza a tutti noi, vedendovi riuniti in una
sola stanza. Sappiate essere pronti, sappiate essere onesti, sappiate essere
all’altezza.
Applausi. In piedi. Il vecchio con la
barba bianca e gli occhiali circolari (no, non è babbo) ha saputo prenderci al
cuore e farci sentire il centro dell’universo per il tempo di un brindisi.
Applaudendo calorosamente, mi guardo intorno: partendo da sinistra ho due
ragazze francesi, un ragazzo azerbaigiano (con cui riesco a parlare con
disinvoltura grazie ad una conferenza informativa organizzata ai primi di
ottobre dalla associazione giovanile Italia – Azerbaigian) e due ragazze
svedesi. La ragazza alla mia destra, svedese, mi guarda sorridendo mentre io la
ricambio sinceramente; complici ripetuti brindisi ci ritroviamo a condividere
un atmosfera di pura euforia fraterna mentre l’inno alla gioia rimbomba dalle
casse e le mani si spostano sul cuore.
Questa notte siamo noi il futuro.
***
Nella stanza rimbomba il silenzio. Tra
chi è partito con l’aereo alle 5 di mattina con per casa, chi si è concesso il
più blando treno e chi ritorna in macchina sono rimasto da solo. Dovrò
aspettare domani per rivedere anch’io l’ormai familiare profilo dei monti che
si stendono sull’orizzonte. Quella rassicurante vista che pone un limite alla
pianura pontina, che separa il mare dall’entroterra e sottolinea la mia terra.
Nei suoi confini e nei suoi odori.
Ritengo sia inutile rimanere a casa,
perciò mi vesto rapidamente e mi lancio per le scale, voglioso di respirare l’aria
fredda, seppur inquinata, di C.so Buenos Aires. Aperta la porta, una marea
umana continua a traversare la strada in ambo i sensi, immune alla mia presenza.
La gente si fionda nei negozi alla ricerca del regalo natalizio per il aprente
di turno di cui a nessuno frega nulla se non il 24 sera. Clacson e chiacchiere
mi accompagnano nella passeggiata, mentre si intravedono le marmoree
monumentali di Porta Venezia illuminate di un blu violastro laggiù, sullo
sfondo della via.
La mano si infila in tasca mentre due
ragazzine chiacchierano su quanto la luisa si è ingrassata ed il fede è
divenuto figo; trovate le cuffie ed infilatele una per ogni orecchio accendo e
mi isolo.
La voce di Bono degli U2 mi urla con fare consolatorio:
« The hurt you hide, the joy you hold,
the foolish pride that gets you out the door.»
La voce di Bono degli U2 mi urla con fare consolatorio:
« The hurt you hide, the joy you hold,
the foolish pride that gets you out the door.»
Il mio futuro è sempre incerto, ma nulla
mi può fermare ormai.
Nessun commento:
Posta un commento