venerdì 26 dicembre 2014

Non importa come, non importa dove (Parte II)



Qui proseguo la narrazione di due particolari eventi, vissuti in due differenti giornate, ed in due luoghi diversi. In principio la bozza che feci concerneva sempre due narrazioni legate alle città di Torino e Milano. Tuttavia il passare del tempo, legato anche a diversi viaggi fatti nel mentre, mi ha portato a cancellare da zero la bozza in questione e a riscriverla di nuovo.


I brani che ho inserito si riferiscono adesso – lasciando sempre di fondo la riflessione su cui si basava la prima parte – al mio viaggio a Uppsala (Svezia) durante lo EYP International forum e Milano, mia nuova dimora a causa lavorativa. 
Come prima, la narrazione non è fatta in ordine cronologico.


Scusate l’assenza, mi farò perdonare (ma non prometto nulla).

 Entro nel salone illuminato da decine di candele disposte ordinatamente su ogni tavolo. La loro luce fioca viene ampliata dai lampadari (simil) cristallo disposti sulle nostre teste, enfatizzando la grandezza della sala mentre i passi degli invitati fanno scricchiolare il pavimento di legno situato al primo piano della Östgöta Nation di Uppsala. 


Lentamente, impressionato dall’atmosfera che si respira – quel misto di timore, euforia e falso senso di autostima che accompagna ogni serata di gala – mi avvio al mio posto. Un cartoncino di carta, posato sul calice, recita il mio nome in caratteri arzigolati, accompagnato da numerosi bicchieri, posate ed il servizio di ceramica.




Inizio a chiacchierare con i miei vicini di posto. Ho già avuto il piacere di conoscerli nei giorni scorsi e cerco sapientemente di mescolare la mia conoscenza dell’inglese e del francese in base all’interlocutore cosi da creare quel leggero clima di calore che permette ad ogni conversazione di avanzare dalla mera cortesia al sincero colloquiare in veste di conoscenti, passando da argomenti di cucina alla politica internazionale, senza dimenticare il vino servito. Un coltello leggermente battuto su di un cristallo, segno internazionale del principio di un discorso, attira la mia attenzione.

***

«Ragazzi ve l’ho detto mille volte: quando cucinate dovete spegnere la luce!! La corrente costa! E poi non c’è mica bisogno di tutta quest’acqua per cucinare gli spaghetti!»
«Ci scusi signora, ce ne dimentichiamo sempre.»

La porta si chiude, seguita dai nostri sbuffi di impazienza. Ritorno a cucinare alzando le spalle: si tratta di una soluzione temporanea finché non riesco a trovare un appartamento vero e proprio dove vivere. Purtroppo a Milano trovare una casa che riesca ad accontentare tutti i tuoi bisogni non è facilissimo ed il tempo è poco, messi in conto i mille impegni che mi aspettano durante la settimana. Finiti di cucinare i miei classici spaghetti in bianco (classici in quanto è quello che cucino sempre quando non ho voglia di fare nulla in cucina e/o mi manca l’ispirazione di fare alcunché) mi siedo esausto. Guardo i miei coinquilini: siamo tutti giovani lavoratori a centinaia di chilometri da casa. Ci alziamo ogni mattina presto e ci rivediamo la sera, esausti. Queste dovrebbero essere le classiche ricette affinché la tavola puzzi di quel tanfo tipico della lontananza, ossia quel misto di nostalgia, stanchezza inesauribile e rimpianto di trovarsi lì.

Eppure così non è.

Ridiamo, parlando del più e del meno. Era da tanto che non trovavo persone con cui riuscivo a legare così, semplicemente nell’immediato. Senza frasi accattivanti né sorrisi di plastica, ma solo accomunati dal rumore di posate, bicchieri e parole gentili. Tutto questo mentre la voce del televisore rumoreggia nel sottofondo del nostro vivere.

***

Il consigliere municipale ci sta riempiendo di orgoglio nel suo discorso sapientemente preparato. Parole di elogio ci sviolinano intorno alle orecchie, mentre ci guardiamo con compiaciuto assenso comune. Voi siete il futuro dell’Europa, voi siete coloro che la salveranno dal baratro e portate speranza a tutti noi, vedendovi riuniti in una sola stanza. Sappiate essere pronti, sappiate essere onesti, sappiate essere all’altezza.

Applausi. In piedi. Il vecchio con la barba bianca e gli occhiali circolari (no, non è babbo) ha saputo prenderci al cuore e farci sentire il centro dell’universo per il tempo di un brindisi. Applaudendo calorosamente, mi guardo intorno: partendo da sinistra ho due ragazze francesi, un ragazzo azerbaigiano (con cui riesco a parlare con disinvoltura grazie ad una conferenza informativa organizzata ai primi di ottobre dalla associazione giovanile Italia – Azerbaigian) e due ragazze svedesi. La ragazza alla mia destra, svedese, mi guarda sorridendo mentre io la ricambio sinceramente; complici ripetuti brindisi ci ritroviamo a condividere un atmosfera di pura euforia fraterna mentre l’inno alla gioia rimbomba dalle casse e le mani si spostano sul cuore.

Questa notte siamo noi il futuro.

***

Nella stanza rimbomba il silenzio. Tra chi è partito con l’aereo alle 5 di mattina con per casa, chi si è concesso il più blando treno e chi ritorna in macchina sono rimasto da solo. Dovrò aspettare domani per rivedere anch’io l’ormai familiare profilo dei monti che si stendono sull’orizzonte. Quella rassicurante vista che pone un limite alla pianura pontina, che separa il mare dall’entroterra e sottolinea la mia terra. Nei suoi confini e nei suoi odori.

Ritengo sia inutile rimanere a casa, perciò mi vesto rapidamente e mi lancio per le scale, voglioso di respirare l’aria fredda, seppur inquinata, di C.so Buenos Aires. Aperta la porta, una marea umana continua a traversare la strada in ambo i sensi, immune alla mia presenza. La gente si fionda nei negozi alla ricerca del regalo natalizio per il aprente di turno di cui a nessuno frega nulla se non il 24 sera. Clacson e chiacchiere mi accompagnano nella passeggiata, mentre si intravedono le marmoree monumentali di Porta Venezia illuminate di un blu violastro laggiù, sullo sfondo della via.

La mano si infila in tasca mentre due ragazzine chiacchierano su quanto la luisa si è ingrassata ed il fede è divenuto figo; trovate le cuffie ed infilatele una per ogni orecchio accendo e mi isolo.

La voce di Bono degli U2 mi urla con fare consolatorio:
« The hurt you hide, the joy you hold,
 the foolish pride that gets you out the door.
» 



Il mio futuro è sempre incerto, ma nulla mi può fermare ormai.

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