I giorni 24 e 25 febbraio sono andate
in onda su Raiuno, le due puntate di una miniserie intitolata "Non
è mai troppo tardi" in omaggio a - e aventi ad oggetto -
l'omonimo programma
televisivo; programma che si proponeva come obiettivo, quello della
alfabetizzazione di quella quota della popolazione italiana che sebbene aveva già superato
l'età scolare, non sapeva ancora né leggere né scrivere.
Ora non voglio scrivere su questo
programma in sé e per sé. Non è il mio stile quello di recensire
le trasmissioni televisive né tantomeno quello di muovere le
passioni con uno scritto struggente e “accalappia-mi piace” sulle
reti sociali (Facebook in primis).
Voglio riflettere su un aspetto in
particolare: quello della memoria.
Nell'arco di vita della trasmissione
(1960 – 1968) l'analfabetismo in Italia si aggirava intorno al
8,3%, un dato altissimo per un paese occidentale (solo la Spagna
faceva peggio in pieno Franchismo).
Saper leggere e scrivere è cultura. La cultura è conoscenza. La conoscenza è potere.
Saper leggere e scrivere è cultura. La cultura è conoscenza. La conoscenza è potere.
Qualche anno fa mi trovavo in Puglia
per vacanza. Ora anche se era estate, anche se vi erano 33c°
e la giornata doveva imperativamente essere trascorsa al mare...beh
lo sapete: trovai una libreria. Una piccola libreria, niente di
eccezionale. Mi ricordo solo che era costeggiata dagli ulivi in un
piccolo centro cittadino vicino a Otranto, nulla più.
All'interno di questa libreria vi erano libri di edizioni locali, libri storici, libri di braccianti, tradizioni salentine e storie fiabesche di turchi, palle di cannone e paladini biondi che li scacciavano.
La mia attenzione non fu rivolta da nessun libro in particolare, finché non fu lo stesso libraio, con il quale avevo iniziato una chiacchierata sul dove si potesse trovare una buona trattoria nei dintorni – e il cui consiglio mi portò a mangiare un piatto di orecchiette al sugo di agnello che erano la fine del mondo – a suggerirmi l'acquisto di un piccolo volume.
All'interno di questa libreria vi erano libri di edizioni locali, libri storici, libri di braccianti, tradizioni salentine e storie fiabesche di turchi, palle di cannone e paladini biondi che li scacciavano.
La mia attenzione non fu rivolta da nessun libro in particolare, finché non fu lo stesso libraio, con il quale avevo iniziato una chiacchierata sul dove si potesse trovare una buona trattoria nei dintorni – e il cui consiglio mi portò a mangiare un piatto di orecchiette al sugo di agnello che erano la fine del mondo – a suggerirmi l'acquisto di un piccolo volume.
Non
costando molto, decisi di donare una chance al libraio che,
giustamente, in cambio dell'ottimo suggerimento sul ristorante,
voleva trarre un suo guadagno.
Questo
libro si è rivelato molte volte come mia fonte di riflessione quando
si dibatteva di cultura, esodati ma anche di Iphone, smartphone ed
immigrazione.
Intendo riportarne un paio di brani, per suggerire una riflessione anche al lettore, sul classico tema del “come si viveva” oppure dell'onnipresente “si stava meglio quando si stava peggio”.
Intendo riportarne un paio di brani, per suggerire una riflessione anche al lettore, sul classico tema del “come si viveva” oppure dell'onnipresente “si stava meglio quando si stava peggio”.
Bibliografia:
“Archivio Ernesto de Martino – Lettere di contadini lucani alla
camera del lavoro (1950 – 1951),
a cura di Gallini Clara, Edizioni Kurumuny, Lecce, 2008;
pp.
57
Bracciante agricolo – StiglianoInciesta sulla Contizione di vita dei bracciante agricolaIo sotto scritto F. A. A. figlio di famiglia la mia famiglia e compesta di sei persone e per primo il mio patre e ammalato e non lavora la mia mamma e lo stesso ammalate e ho bisogno al minimo di £5,000 per la malattia. Io lavore presso la ditta Marchese con sola di Lire al giorno 665 se io solo di vivere o bisogno un quintale di grano e la somma di £7500. (…) E noi lavoratori come possiamo vivere per sola di £665 al giorno. Io chiedi alla aumento della giornata almeno 1000 lire.
pp.
87
Io sottoscrivo quanta è la miseria, che sto lavorando (...)dalla mia piccola età mio padre mi privò di andare a scuola per il solo motivo perché ne avevo molto bisogno di me : che io li guadagnavo quella quanta per almeno poter mangiare io stesso, perciò in poche parole o dovuto lavorare di 10 anni per aiutare, dico aiutare mio padre ma non lo aiutato ben sì li ho dato più disperazione in quanto il mio salario era molto minore di quanto mi potevo sfamare io stesso. Adesso ho 41 anni ricordatevi quanti anni di lavoro ho fatto, ma pur troppo non sono riusicito a mettere un soldo da parte, per questo? (...)Io mi trovo con n'6 di famiglia a carico in questi uno solo lavora che l'ò uscito quest'anno e l'ò messo fuor dalla scuola quando e stato li stesso mie condizione.(...)
pp.
121
22/08/1951
(…) Ho 19 anni. Avevo 11 anni quando cominciai a lavorare (…) per scarpe ai piedi porto delle scarpine in mancanza di altro (...)La casa in cui dormo non si può stare tanto che quando piove sono costretto a spostare il letto ; è larga 4x4, siamo in 6 persone a dormire tutti di famiglia di cui due sono donne; è senza luce, il petrolio lo comperiamo noi, senza che il datore di lavoro ci rimborsi per le spese fatte; quando piove l'acqua entra dentro, la porta non è sana, tanto che quando è inverno bisogna mettere qualche cosa avanti per non sentire il freddo intenso. (…) Il salario se mi voglio comperare un paio di scarpe non lo posso fare perché occorrono molte cose tra cui il mangiare.
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