domenica 19 febbraio 2017

Mosche di nostalgia



 È domenica mattina.
Già di per sé questa osservazione merita un lungo tempo di meditazione sotto le coperte. Fuori il grigio delle mattinane milanesi mi attende con un torpore che preannuncia una primavera di aprile che verrà. Mi alzo lentamente mentre la sveglia suona – su previdente scelta passata – le note di Sunday Morning dei Velvet Underground e, dopo una doccia ben oltre la soglia del risparmio idrico, mi vesto e decido di uscire.

Lo sferragliare dei tram mi accoglie insieme ai primi automobilisti strombazzanti (che poi dove dovrete correre mai?) e mi incammino senza meta. Nell’arco di pochi minuti sono su Corso Buenos Aires, affollato di ultimi avventurieri dei saldi e pari mendicanti che sostano dinnanzi ai numerosi caffè.
Mi infilo nella Torrefazione Ernani sfuggendo ad una zingara che mi maledice in mille e più lingue antiche per farmi mandare a quel paese in lombardo perché dico cappucino & cornetto anziché un capuccio e brioche e, apparentemente, non si capisce al primo colpo (non mi avrete mai). Acquisito un po' di torpore latte e blue mountain mi lascio guidare fino al parco Indro Montanelli (a.k.a. giardini di Porta Venezia).  Gente che corre con cuffie insonorizzate – occhio ai passeggini manager – vedo bambini iperattivi e vecchi con il giornale che si scrutano a vicenda: sospettosi gli uni degli altri ma accumunati da una mai insufficiente mancanza di fiducia degli attuali adulti pro tempore. Il lento fruscio degli alberi accompagna la passeggiata che si perfezionerebbe con una donna, a passeggiare sulla ghiaia lentamente, giù su sentieri polverosi evitando anche qui i venditori di libri su Mama africa e via, su Corso Manzoni, a guardare vetrine in cui difficilmente puoi far altro che il mero osservare da fuori.
Ed è inspiegabilmente tra un pioppo ed una quercia che il pensiero si rivolge a casa mia, accompagnato dai versi di Rilke. Ripenso ad Eucalipti in fiore, Corbezzoli e silenzio che accompagnava pomeriggi di sole. Guardo il tipo che mi accompagna nell’attesa del semaforo: ma tu ti ricordi di un altro tempo?
Scaccio con la mano e continuo a camminare tra cinesi e russi che bramano la Scala accompagnato dai versi di cui ricordo solo due strofe, ma sono più che sufficienti. Sorrido, lasciando il passaggio al tornello alla ragazza che ha ovviamente preso sul serio la canzone Occidentali’s karma, scarnificando una scimmia ed indossandola e lascio sparire la luce in fondo all’entrata della metro.
Mi riconosci, aria, ancor tu colma di luoghi un tempo miei?

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